Quando la magia si confonde con la realtà: la storia di una “cerca” nata al chiaro di luna

Ogni anno, quando ar­ri­va il momento del­la Fie­­ra del tartufo, le pro­­tagoniste di­ven­ta­no loro: le pregiate “pepite bian­­che”, conosciute ormai in ogni angolo del pianeta per il loro sapore inebriante e per l’alone quasi magico che le circonda. Troppo spesso, però, ci si dimentica che i “tuber” più famosi del mondo non si trovano sugli alberi né nascono nelle aiuole, ma sono il risultato della combinazione, fortunatamente non riproducibile in nessun laboratorio, tra un microclima particolarmente favorevole e una serie di comportamenti uma­ni che oggi costituiscono un’autentica cultura.

Sì, perché conservare intatto questo mi­cro­clima “fecondo”, tra­man­dan­do nel tempo le tecniche di “cerca” e “cavatura”, oltre ai segreti per l’addestramento dei “tabui” (i cani da “cerca”), è un qualcosa che appartiene alla sfera dell’immateriale. Non è un caso, dunque, che la ricerca del tartufo e, in generale, tutti gli aspetti legati a questo meraviglioso mondo siano in corsa per ottenere il riconoscimento Unesco di patrimonio culturale dell’umanità.

In attesa del verdetto, atteso per il dicembre del 2021, può risultare interessante, in periodo di Fiera, adden­trar­si in questo incantevole ed emozionane “sottobosco”. Lo fa­remo con l’aiuto del­l’Asso­cia­zione nazionale Cit­tà del tartufo e, in particolare, della pubblicazione che il sodalizio ha di recente realizzato in partnership con la Federazione nazionale associazione tartufai italiana, intitolata “Cerca e cavatura del tartufo in Italia: conoscenze e pratiche tradizionali”.

Come si diceva prima, le attività di “cerca” e “cavatura” rappresentano un pa­trimonio culturale immateriale di conoscenze e pratiche, tramandate (spesso oralmente) per secoli, che caratterizzano la vita dei “tartufai”, coloro i quali detengono le chiavi di questa cultura. Una cultura che si compone di tante abilità, da cui deriva, ad esempio, la “cerca”, ovvero la capacità di individuare le aree che, grazie alle loro peculiarità, favoriscono lo sviluppo del­la pianta tartufigena, ele­men­to essenziale, con le caratteristiche delle sue radici, per la crescita del tartufo stesso.

Un’altra abilità è senza dubbio quella legata alla “cavatura”, l’operazione attraverso cui il tartufo viene estratto dal terreno, grazie al prezioso “lavoro” del cane e al tradizionale “vanghetto”, noto anche come “zappino”. Un’operazione che, sebbene possa sembrare banale, vie-ne eseguita dai “trifolao” con un’attenzione particolare, in mo­­do tale da non alterare le con­dizioni del terreno. È infatti fondamentale, al fine di garantire la rigenerazione biologica stagionale delle specie tartufigene, salvaguardare l’equilibrio biologico e la biodiversità vegetale. In questo modo, peraltro, viene fornito un significativo con­tributo alla lotta contro il cambiamento climatico.

Tali pratiche sono state tramandate di generazione in generazione, anche attraverso storie, fiabe, aneddoti, proverbi e modi di dire. Questo “universo”, che incuriosisce sempre di più i visitatori stranieri, si intreccia alla mi­tologia, specie quella legata alla natura. Una natura che per il “tartufaio” rappresenta certamente il luogo di lavoro ma an­che un contesto che può dare origine ad ansie e paure, un tem­po descritte come “ma­sche”. Alla luce di ciò, il “trifolao” viene considerato come un “eroe della notte”, capace di condividere spazi e tempi con figure mitologiche e “bra­vo” nel “cavare” dalla ter­ra quei gioielli tanto misteriosi quanto magici. Secondo gli an­tichi, il periodo migliore per la “cerca” era proprio quello in cui le forze mitologiche si ma­nifestavano, ovvero dopo i temporali con tuoni e fulmini o nel­le notti di luna piena.

Non è un caso, quindi, che an­cora oggi i cercatori di tartufi vengano considerati (a ragione) come esperti di clima, precipitazioni, caratteristiche dei ter­reni, specie vegetali, capaci peraltro a garantire una corretta e sostenibile gestione dei sistemi naturali attraverso il man­­tenimento e il miglioramento degli ecosistemi boschivi e fluviali nei quali è presente il “fungo sotterraneo”.

Infine, ma non ultima, specifica abilità del “trifolao” è quella di saper addestrare il cane ad affinare l’olfatto, in modo tale che, annusando l’aria in mez­zo a centinaia di odori, si diriga verso la fonte di quello che cer­ca e, girando intorno alla pianta tartufigena, individui il pun­to esatto dove iniziare lo “sca­vo”, per lasciare poi l’operazione di estrazione vera e propria alla cautela del navigato “cavatore”, il quale, successivamente, si preoccuperà di “pre­miare” adeguatamente il suo inseparabile “tabui”.
Ecco cos’è, in sintesi, la “cer­ca” del tartufo: una magia da vivere ad occhi aperti, lasciandosi abbracciare dalla natura e dalle suggestioni che questo antico rito sa regalare.

FONTE: www.ideawebtv.it

Quando la magia si confonde con la realtà: la storia di una “cerca” nata al chiaro di luna
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